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 tratto da: http://www.ansa.it/

 

Di Silvana Logozzo ROMA 30 ottobre 201910:13

"Si parla tanto di eutanasia. Per quanto mi riguarda l'argomento non ha nulla a che vedere con la religione. In oltre 20 anni ho curato migliaia di pazienti con tumore ai polmoni, alcuni si sono salvati, altri si sono persi, ma mai nessuno di loro mi ha chiesto di morire. Sul fine vita ho questa esperienza, con il supporto delle cure palliative e togliendo il dolore ho accompagnato al meglio quelli che non hanno superato la malattia fino al giorno in cui sono morti, e a queste condizioni per loro è stato un momento magicamente perfetto".

Raccontare la vita e la morte dalla parte di chi ha un ruolo importante nella direzione che può prendere una malattia grave non è facile, tuttavia parlarne è anche un modo per rinsaldare l'alleanza terapeutica con i pazienti. E Marina Chiara Garassino, responsabile della Struttura di oncologia toraco-polmonare dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano e ricercatrice, alla necessità di avvicinare i pazienti e chi li cura anche raccontando il versante personale della propria vita di medico crede fortemente. "Il valore non è solo nella vita senza malattia, ma anche in quella con la malattia - dice - noi medici dobbiamo avere consapevolezza del nostro ruolo, tenere conto che non sempre si può salvare. Spesso i pazienti guariscono, ma non succede sempre. Il nostro compito è studiare, dare le migliori cure, però dobbiamo essere coscienti di non poter dare una risposta al dolore globale". Il dolore del resto, inutile nasconderlo, è al centro del percorso che coinvolge le persone che si ammalano e chi li cura.

"Sicuramente un italiano su tre ha avuto a che fare con un tumore. O direttamente, o perchè un familiare, un amico ne è stato colpito. C'è chi sfugge alla sofferenza e chi decide di farne uso per realizzare qualcosa di buono - ricorda l'oncologa - nel mio caso, da bambina ho visto mia madre ammalarsi di tumore, e da più grande ho perso un caro amico. Sicuramente ho scelto questa professione spinta dalla mia esperienza personale". E continua: "Ma per un medico che vive tutti i giorni circondato dal dolore, è necessario creare una forma di auto protezione, farsi aiutare, e non riportare la storia personale nel rapporto con i pazienti". Secondo uno studio internazionale, l'80% degli oncologi ha il burnout, resta bruciato dalle esperienze di sofferenza. Per questo motivo le università statunitensi, come Yale e Harvard, hanno inserito nel percorso di studi un sostegno alla professione medica perchè a rischio di 'bruciatura', così come tutte le professioni di aiuto. "Nel corso degli anni mi sono rivolta a uno psicologo perchè ritengo necessario mantenere l'equilibrio. Condividere le decisioni con il proprio gruppo di lavoro consente di far pesare su se stessi un carico minore.
Anche quando si è scoraggiati è meglio condividere. A volte è davvero necessario farsi aiutare. Anni fa ho avuto in cura una giovane madre con due figli piccoli, che non aveva un compagno.C'è stata un forte vicinanza, poi lei non si è salvata. Ancora oggi i suoi figli pur avendo altri familiari fanno riferimento a me".

La cura degli altri insomma non significa solo spendere se stessi usando tutti i mezzi professionali che si hanno, vuol dire anche lavorare sulla propria emotività, sull'intuizione, sull'idea che può portare un medico a prendere una decisione anzichè un'altra. In termini di energia spesa a favore degli altri si tratta di un impegno impagabile. Ancor più se si pensa che affrontare la malattia grave dei pazienti implica spendere un tempo mentale e reale che va ben al di là dei turni ospedalieri. Marina Garassino non ha remore nel confermare che le sue figlie da piccole hanno molto sofferto della sua assenza da casa. Ma oggi che sono due giovani donne adulte e che hanno scelto di fare lavori 'decisamente più leggeri' - spiega sorridendo - sono felici e orgogliose della madre.

Infine racconta un caso, particolarmente significativo: "Io e il mio team abbiamo ricevuto una bellissima lezione sulla libertà di decidere del paziente. Abbiamo avuto in cura una giovane donna, 34 anni, che aveva già metastasi cerebrali. Per caso è rimasta incinta durante il trattamento e nonostante le avessimo consigliato di interrompere la gravidanza per i possibili danni della terapia al feto, lei ha deciso di portarla avanti. A maggio è nata una bellissima bambina, senza nessun problema di salute. Questa donna ci ha educato al rispetto verso la libertà del prossimo, ci ha insegnato a stare di fronte al paziente, ci ha messo in gioco come medici. Ci ha fatto capire che non dobbiamo pensare di dover decidere sempre noi, che non abbiamo la ricetta giusta. Lei ora sta bene, è viva".

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